Un pomeriggio col tuo scrittore preferito

La verità, piccolo e fragile lettore, è che forse non hai più fame. La fame è quella componente che ti fa mangiare il mondo.

Un feriale giorno di triste mestizia, dolce e attraente come solo la tristezza sa essere, mi arriva la telefonata di Fabia. Non avevo sue notizie da lustri. La cosa comunque mi ricreava, perché allora non poteva essere defunta. “Devi scrivere un pezzo per la rivista. Sì sì sì, scrivi qualcosa. Quello che vuoi. Anzi, no, si, non proprio quello che vuoi. Insomma, ci siamo capiti. Mi piacerebbe tu scrivessi un articolo sulla tematica di cui vogliamo parlare: il play! Non mi puoi dire no. Ti sono sempre stata così vicina…” I-L-P-L-E-I. Oh mmmai God! Capisci, lettore?! Chiedono (ma sarebbe più corretto: ordinano!) al più grande scrittore del mio tempo (che poi sarebbe anche il tuo ed il loro di Tempo) di sragionare circa anglicismi della più infima importazione. Manco fossi il titolo di un album del fu Ligabue. La situazione non è grave come sembra. È ancora più grave!

Con più che mal celata probabilità lo scopo della Rivista credo sia quello di non aggiungere più altri lettori alle sue copie. O quantomeno di perdere almeno quelli già presenti. Presenti prima della pubblicazione di questo articolo, si capisce! Altrimenti non si spiega il Suo della Rivista bussare alla porta del più forte di tutti. Della penna più veloce della Playade (hai letto bene, non è un errore della tastiera. Ho appena costituito un calco british su sostrato italofrançais. Sono un genio!). Geniale quasi quanto la zia di un mio collega emigrata povera dalla Sicilia all’Australia un mezzo secoletto fa: ora ricca, di stupore e meraviglia, strambotta i nipotini with “chi ssù beddi ‘sti children!”

Le parole, con me che a pieno titolo rientro nel novero dei Grandi, si comportano come le  belle ragazze scosciate che nelle frizzanti sere primaverili popolano le vie del centro. Non importa di quale centro. Il centro sempre uno è. Dappertutto c’è un centro, ed ovunque è quasi sempre lo stesso. Si comportano, le parole, come queste ragazze, dicevamo. Non s-concentrarti. Di solito quando mi vedono scappano. Ed io sono troppo indolente per inseguirle.

Le italiche parole. Figuriamoci che dimestichezza e che goffa intraprendenza possa avere con vocaboli mai stati miei. Io così poco incline e tanto inetto a queste novelle Prose della forestiera lingua. Ma: “Show must go on!” – usano dire. E allora che aspetti, lettore?! Dai dai, avanti con lo show. Che lo show non abbia mai fine. Show, show, sciò. Pussa via!

Chi cazzo ti conosce a te… in ogni caso, però hai solo da imparare. Quindi, ascoltami, perché io che discendo da un’etera ateniese infrattatasi con un soldato romano, mi esprimo meglio in latino che in inglisccccchhhhhh. Ed il pulsante del loro “play” del cazzo io lo attivo col mio digitus impu dicus. Lo so che non è facile seguirmi: leggere un Grande è una pratica che richiede l’inevitabile componente del SACRIFICIO. Codesto non può mai restare scisso dalla semplice sintetica lettura che ogni comune ed anonimo alfabetizzato è in grado di riprodurre. Immagina l’agone che si manifesta tra uno scrittore ed il suo lettore come un pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Polsi. Sobbalzare tra le tortuosità del sentiero, incespicare tra le ostilità dei suoi osta coli, rimbalzare da ogni suo acuto tornante a l’altro. Un viaggio ogni anno sempre più a rischio del pellegrinante. Perché le prebende, tolta la quota per il tondo ventre della Curia, l’acquisto dell’anello nuovo per il mignolo del mammasantissima, e qualche spicciolino per tutto l’indotto di addetti alle estorsioni, ops!, ai lavori, non sono mai sufficienti alla messa in sicurtà della strada.

Puoi urlarmi “creeetinooooo” tutte le volte che vuoi. È inutile, tanto con me non attacca. Non faccio nulla di eccezionale. Me lo merito e basta.

Non farti mai sfiorare, lettore, dal truce pensiero che io stia andando fuori tema. Non v’è rischio alcuno manco nella più remota lontananza. E dalla vicinanza a traverso la quale mi rivolgo a te, ti dico che, se “to play” può anche tra gli anglosassoni assumere talvolta il significato di “suonare”, esso è e manterrà sempre il significante di “giocare”. Pertanto io gioco. E mi diverto a prendere in giro il mondo ed i suoi ridicoli stereotipi. Uno stereo per ballare e dei tipi da sbeffeggiare. Perciò, Sutor, ne ultra crepidam! – ed anche quando non una sola delle word che ti dico possiedi, rimane sempre una cosa che puoi fare: usare il tuo smartfone e diventarne anche tu padrone. Non c’è cosa ormai che quel coso non riesca fare. Compresi i cornetti caldi. Hai in mano l’universo reso manifesto per mezzo di quell’infernale aggeggio, ma molto spesso, chino su di esso (meglio, decisamente prono), ti perdi l’occasione che avrebbe potuto salvarti la vita. E non rompere le palle con la storia che “non te l’aspettavi”. Stai leggendo una rivista che si fa chiamare “Liquida”, e al suo interno pretenderesti quasi di trovarne uno meno bevuto di te. No no, non ci siamo. OK (altro prestito da lingua straniera), non hai capito neanche questa! Chissà che tu non sia un altro dei laureati con 110 e frode in strategia dell’imbroglio che coprono le poltrone dei nostri pubblici uffici?!

Ed io l’idiota che ti dedica uno splendido pomeriggio di pioggia culo sulla sedia e mani sul tavolo della cucina. Ti parerà poco, ma molti scrittori non hanno nemmeno quello, ci ha lasciato detto Chinaski. Io incap(r)onito e determinato ad arrivare sino alla fine di questo melanconico articolo. E nemmeno una ragazza con cui passeggiare sotto al portico. Con la quale ridere di quanto siamo stupidi. Una donna con cui parlare di Omero. E di tutti gli Spiriti Magni.

La verità, piccolo e fragile lettore, è che forse non hai più fame. La fame è quella componente che ti fa mangiare il mondo. E proprio per l’appunto io non vedo l’ora di finire per potermi gettare a pesce sul mio piatto preferito: pasta e fagioli. E dopo uscire sul balcone e irrigare con tutta la mia incompresa rabbia l’erba del vicino. Da immemorabile tempo, si sa, sempre più verde. Mingere cum bumbis est bonum lumbis. Ti ho detto di cercare sul telefonino… ma tu continua pure la villeggiatura nella tua isola di Pasqua. Nel senso delle condizioni di chi si ritrova giulivo e con una inebetita faccia di… pasqua, per l’appunto!

Non mi stupirebbe appurare di aver perso il mio tempo con un rampollo di buona famiglia e per giunta laureato. Per rendere anche a te chiaro il valore del suddetto pezzo di carta te ne racconto una. Stammi a sentire. Taci, mi hai rotto i coglioni adesso. È da almeno secondi 0,3 che parli solo tu. Una mattina in treno lungo la Verona Porta Nuova-Milano Centrale una ragazza raggiunse il capotreno, in preda alla più disperata disperazione. Tre sere prima aveva dimenticato a bordo del convoglio il suo attestato di laurea. Cioè… ti rendi conto?! Questa in una sera ha mandato a puttane anni di strette di cinghia e più totale senso di privazione di tutta una famiglia dimenticando il documento che ne comprovava ciò. Oh, non ci crederai, ma la laurea era ancora lì. Al posto in cui lei l’aveva lasciata. Non se l’era cagata nessuno ad eccezione di una culona nigeriana che vi aveva adagiato sopra il suo delicato derrière. Per tre interi giorni con annesse tre complete notti, e decine di viaggi dall’est all’ovest e dall’ovest all’est. Ecco, tanto vale una laurea in questo Paese. E, carico da 11 maggiorato da bestemmia, non contiamo e non parliamo degli sforzi fatti per liberarla. La laurea, intendo. Tutti pensavamo la nigeriana fosse la neolaureata, tanto era nera dalla bile. Ma poi il capotreno ci disse che non era lei perché quando è salita era bianca. Ci tranquillizzammo un po’ tutti ed offrimmo qualche parola di conforto alla nigeriana vera. Mi sto perdendo e ti sto perdendo in frasi confuse e senza appeal. Sei stanco, lettore, non hai una bella cera. Ma questo è il mio play, per cui ti chiedo un ultimo sforzo, e ti prometto che la fine dei tuoi supplizi sarà imminente. Nomina nuda tenemus. Dai, giuro ch’è l’ultima. È che non mi piace parlare nella lingua di chi, come mio padre quando si adegua al bracciante marocchino, coniuga all’infinito il proprio presente indicativo. Sto dalla parte della mia nipotina Laura, bambina di eterea rarefatta bellezza. La quale, interrogata circa la latitanza di un ipotetico fidanzatino, risponde: “se non lo trovo io, forse mi trova lui!”

Foto Carmine William Amato
www.facebook.com/carminewilliamamato
Testo di Luca Masculo Legato
luca.legato@rivistaliquida.it

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